Risoluzione n. 372321 del 28 novembre 2016
Si fa riferimento alla nota n. 2923.11 del 2016, con la quale codesta Associazione, stante anche il contenuto delle note della scrivente Direzione Generale n. 174884 del 29-9-2015 e n. 75893 dell’8-5-2013, chiede alcuni chiarimenti in merito alla norma di cui all’articolo 3, comma 1, lettera f-bis, del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito nella legge 4 agosto 2006, n. 248, che istituisce il c.d. consumo sul posto dei prodotti di gastronomia negli esercizi di vicinato utilizzando i locali e gli arredi dell’azienda con l’esclusione del servizio assistito di somministrazione e con l’osservanza delle prescrizioni igienico-sanitarie.
In particolare, rileva che, con le summenzionate risoluzioni ministeriali, “è stato ritenuto normalmente ammissibile solo l’utilizzo di piani di appoggio di dimensioni congrue all’ampiezza ed alla capacità ricettiva del locale nonché la fornitura di stoviglie e posate a perdere” e “la presenza di un limitato numero di panchine o altre sedute non abbinabili ed eventuali piani di appoggio, essendo invece tipica di bar e ristoranti la consumazione seduti al tavolo, anche se eventualmente svolta con modalità self service”.
Considera infine tale orientamento “punitivo” non solo per le imprese interessate, ma anche per i consumatori nella misura in cui li costringe ad un servizio di minore qualità (con bicchieri e posate in plastica usa e getta) ed in situazioni di oggettiva scomodità (seduti, ma non al tavolo, o poggiando i prodotti su un piano, ma restando in piedi).
Proprio a tal riguardo, chiede che quanto previsto da dette risoluzioni venga riconsiderato, in quanto previsto unicamente al fine di mantenere una sottile linea di demarcazione tra esercizio di somministrazione ed esercizio di vicinato con consumo sul posto di prodotti di gastronomia e che tali attività commerciali possano pertanto essere svolte senza escludere, fra gli arredi dell’azienda consentiti, l’utilizzo di piani di appoggio di dimensioni congrue all’ampiezza ed alla capacità ricettiva del locale in abbinamento a sedute che consentano agli utenti di consumare sul posto in tutta comodità e di usufruire di servizi di qualità.
Occorre inoltre tener presente che nelle more della risposta di questa amministrazione al predetto quesito, è intervenuta in materia anche l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, la quale con la segnalazione S2605 del 2016, nell’esercizio dei poteri ad essa conferiti dall’articolo 21 della legge n. 287 del 10 ottobre 1990, ha formulato alcune osservazioni in merito alle distorsioni concorrenziali che potrebbero a suo avviso derivare dai medesimi ed ulteriori recenti pareri della scrivente Direzione Generale in materia di consumo sul posto, considerati ingiustificatamente restrittivi (cfr. parere n. 75893 dell’8-5-2013; parere n. 146342 del 19-8-2014; parere n. 86321 del 9-6-2015).
Ad avviso dell’Autorità, infatti, l’interpretazione suggerita nelle richiamate risoluzioni, incentra l’elemento distintivo tra l’attività di somministrazione di alimenti e bevande e l’attività di vendita sulla modalità di consumo dell’offerta, in termini di attrezzatura utilizzabile per consentire il consumo sul posto, non risultando aderente alle nuove abitudini di consumo e suscettibile di limitare le possibilità di scelta dei consumatori, creando altresì un’indebita discriminazione fra i vari operatori del settore.
Sempre ad avviso dell’Autorità, tali risoluzioni non tengono conto del fatto che già il D.L. n. 223 del 2006 aveva inteso superare o quantomeno coordinare con i principi di concorrenza tutte le attività di consumo sul posto di alimenti e bevande, individuando il discrimen tra l’attività di somministrazione e quella di vendita da parte degli esercizi di vicinato unicamente nella presenza o meno del servizio assistito, risultando pertanto idonee a favorire l’adozione di regolazioni a livello locale ingiustificatamente restrittive e discriminatorie.
In conclusione la predetta Autorità, facendo riferimento anche ad un regolamento comunale che, basandosi delle predette risoluzioni ministeriali, vieta agli esercizi di vicinato qualsiasi modalità di occupazione del suolo pubblico per il consumo all’aperto, auspica che questo Ministero possa pervenire ad “un’interpretazione della materia pienamente rispondente ai principi concorrenziali” richiamati nelle considerazioni formulate con tale segnalazione.
Al riguardo, la scrivente Direzione, atteso che considera come proprio obiettivo quello di un’interpretazione della normativa vigente ragionevole e proporzionata rispetto ai reali interessi da tutelare, che non determini inutili ostacoli all’attività delle imprese e sia pro concorrenziale e non discriminatoria, ritiene utile illustrare qui di seguito le ragioni delle proprie richiamate interpretazioni, sgombrando il campo da un loro utilizzo non coerente con i predetti obiettivi e tracciandone anche le possibili linee evolutive.
L’art. 3, comma 1, lettera f-bis) del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 2006, n. 248, ha introdotto il principio in base al quale negli esercizi di vicinato, nel solo caso in cui siano legittimati alla vendita dei prodotti appartenenti al settore merceologico alimentare, il consumo sul posto di prodotti di gastronomia non può essere vietato o limitato se svolto alle condizioni espressamente previste dalla nuova disposizione, ovvero la presenza di arredi nei locali dell’azienda ed esclusione del servizio assistito di somministrazione.
L’articolo 4, comma 2-bis, dello stesso decreto consente il consumo sul posto anche ai titolari di impianti di panificazione con le stesse modalità applicative cui devono sottostare i titolari di esercizi di vicinato.
Infine, ai sensi del comma 8-bis dell’articolo 4 del decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 228, anche agli imprenditori agricoli è consentito effettuare il consumo immediato dei prodotti oggetto di vendita, utilizzando i locali e gli arredi nella disponibilità dell’imprenditore agricolo, con l’esclusione del servizio assistito di somministrazione e con l’osservanza delle prescrizioni generali di carattere igienico-sanitario.
Con riguardo alle modalità applicative delle richiamate disposizioni, la scrivente Direzione Generale si è espressa al punto 8.1 della circolare esplicativa 3603/C del 28-9-2006, precisando che il consumo sul posto dei prodotti di gastronomia da parte degli esercizi di vicinato, ovviamente solo nel caso in cui siano legittimati alla vendita dei prodotti alimentari, non può essere vietato o limitato se svolto alle condizioni espressamente previste dalla nuova disposizione; le condizioni concernono la presenza di arredi nei locali dell’azienda e l’esclusione del servizio assistito di somministrazione. Per quanto riguarda gli arredi ha precisato che i medesimi devono essere correlati all’attività consentita, che nel caso di specie è la vendita per asporto dei prodotti alimentari e il consumo sul posto dei prodotti di gastronomia. In ogni caso, però, la norma che consente negli esercizi di vicinato il consumo sul posto non prevede una modalità analoga a quella consentita negli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande di cui alla legge 25 agosto 1991, n. 287.
Con successivi pareri ha formulato ulteriori precisazioni sulle attrezzature che possono essere utilizzate, escludendo, ad esempio le apparecchiature per le bevande alla spina e le macchine industriali per il caffè, tradizionalmente utilizzate negli esercizi di somministrazione, nonché sulle operazioni di preparazione/trasformazione/cottura e trattamento dei prodotti destinati al consumo sul posto, consentendo in tal senso solamente il riscaldamento/sporzionamento dei medesimi.
Nel parere più recente (n. 86321 del 9-6-2015) è stato precisato che possono essere utilizzati piani di appoggio di dimensioni congrue all’ampiezza e alla capacità ricettiva del locale, nonché sedute non abbinabili, non nel senso che la loro collocazione all’interno dell’ambito spaziale deve essere non abbinata (solo in tal senso i clienti potrebbero abbinarli spostandoli), ma nel senso che l’utilizzo congiunto della seduta e del piano d’appoggio non deve risultare normalmente possibile (ad esempio, per le diverse altezze dei medesimi) in modo che sia consentito ai fruitori il consumo degli alimenti e delle bevande da seduti (ma non al tavolo) ovvero appoggiando i prodotti su un piano (ma senza poterlo utilizzare da seduti).
Con riferimento a quanto sopra e, nello specifico, alle limitazioni sostenute dalla scrivente Direzione Generale nel caso in cui l’esercente intenda consentire il consumo sul posto agli utenti, si ritiene di formulare alcune considerazioni, anche alla luce di quanto evidenziato nella richiesta di parere di codesta Associazione.
In via preliminare va precisato che i chiarimenti contenuti nelle richiamate risoluzioni ministeriali hanno il senso di individuare tutte quelle attività che appaiono correttamente riconducibili alle disposizioni di liberalizzazione sopra richiamate e, quindi, tutte quelle modalità di svolgimento delle attività certamente consentite, offrendo un quadro di certezza giuridica almeno
alla maggior parte delle attività in questione, ma che tali risoluzioni ministeriali non dovrebbero al contrario essere considerate fonte di divieto aggiuntivo rispetto alle prescrizioni di legge in questione, non potendo desumersene che ogni diversa ipotesi di svolgimento di tali attività sia automaticamente non consentita, senza alcuna specifica valutazione.
Ad esempio, l’affermazione secondo cui è certamente consentito l’utilizzo di bicchieri e posate in plastica o comunque monouso, non deve essere interpretata come divieto dell’utilizzo di posate in metallo e di bicchieri di vetro o tovaglioli in stoffa, quando sono poste a disposizione della clientela con modalità che non implichino un’attività di somministrazione, quando cioè non si tratti di “apparecchiare” la tavola con le modalità proprie della ristorazione, ma solo di mettere bicchieri, piatti, posate e tovaglioli puliti a disposizione della clientela per un loro uso autonomo e diretto. Una diversa interpretazione, infatti, sarebbe certamente sproporzionata rispetto alla necessaria distinzione fra attività di consumo sul posto ed attività di ristorazione in senso stretto, ed in evidente contrasto anche con l’esigenza di un consumo consapevole, ecologico e di qualità e con i più elementari principi di tutela dell’ambiente e di riduzione della massa dei rifiuti non riciclabili.
Parimenti, dai riferimenti alle tipologie di arredi sicuramente consentiti all’interno dei locali, non può desumersi che gli stessi arredi non possano essere a determinate condizioni consentite anche su aree pubbliche prospicienti il locale stesso, dove sia dalle competenti autorità locali consentito occupare porzioni si suolo pubblico con panchine, piani di appoggio, ecc.
In altre parole, l’uso del suolo pubblico va valutato dalle autorità locali, caso per caso o sulla base dei propri regolamenti e degli interessi rilevanti da salvaguardare nelle diverse zone, non con automatismi collegati alla tipologia di attività (non può essere cioè immotivatamente consentito alle attività di ristorazione e vietato invece a quelle di consumo sul posto).
Quanto invece al principale oggetto del quesito, si ritiene al momento di dover confermare le considerazioni svolte al fine di distinguere le attività di vendita con consumo sul posto rispetto a quelle di somministrazione anche dal punto di vista degli arredi utilizzati, nella misura in cui tali arredi e le relative modalità di utilizzo consentano consumazioni seduti al tavolo con caratteristiche di richiamo quantitativo della clientela e di permanenza nel luogo di consumo tali da rendere l’impatto delle relative attività del tutto assimilabile all’attività di ristorazione o degli altri pubblici esercizi.
Il problema non è infatti quello di determinare disparità ingiustificate fra esercizi abilitati a praticare il consumo sul posto ed esercizi di somministrazione, bensì quello di non rendere fonte di disparità del tutto ingiustificate i vantaggi di semplificazione nell’acquisizione del titolo autorizzatorio per gli esercizi in cui si pratica il consumo sul posto, rispetto ai normali pubblici esercizi, in presenza di caratteristiche di servizio sostanzialmente assimilabili e di pari impatto. In altre parole, se entrambe le tipologie di esercizi fossero assoggettati a SCIA ed ai medesimi requisiti igienico sanitari e di sorvegliabilità, la distinzione non avrebbe ragione di essere e, peraltro, gli esercizi di vicinato e gli altri esercizi abilitati al servizio di consumo sul posto potrebbero svolgere attività del tutto assimilabili conseguendo con il medesimo grado di complessità e con i medesimi requisiti ed adempimenti l’uno o l’altro titolo autorizzatorio. Ed in questo senso potrebbe forse essere rivalutato il rigore delle predette risoluzioni ministeriali quantomeno nelle aree non soggette ad alcuna specifica tutela ed in cui anche le attività di somministrazione di alimenti e bevande da parte dei pubblici esercizi possono essere svolte previa semplice segnalazione certificata di inizio di attività, senza alcun limite o contingente programmatorio.
Fintanto che, invece, esistano (come sembra sia ancora anche nel combinato disposto dell’articolo 1, comma 4, e dell’articolo 2, con la relativa allegata tabella, del decreto legislativo 25 novembre 2016, n. 222, recante l’individuazione di procedimenti oggetto di autorizzazione, segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA), silenzio assenso e comunicazione e di definizione dei regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti, ai sensi dell’articolo 5 della legge 7 agosto 2015, n. 124) aree del territorio soggette a maggior tutela in cui l’attività dei pubblici esercizi sia soggetta ad autorizzazione e possa essere contingentata o le nuove attività del tutto vietate, in relazione a rilevanti esigenze per la loro valenza artistica, storica ed ambientale, o anche per ragioni di sicurezza, sostenibilità sociale o di viabilità, sarebbe fonte di ingiustificata disparità (e non positiva apertura concorrenziale) consentire invece senza alcuna limitazione lo svolgimento di analoghe attività agli esercizi abilitati al consumo sul posto, senza differenziare le modalità di svolgimento delle relative attività in modo da limitarne l’impatto e mantenere ragionevolezza alla disposizione di favore rispetto ai pubblici esercizi in senso stretto.
Si fa riferimento a questo riguardo all’attuale regime dell’autorizzazione (silenzio-assenso a 60 giorni) in caso di apertura o trasferimento di sede degli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande al pubblico nelle zone del Comune soggette a tutela, così come invece previsto dall’articolo 64, comma 1 e comma 3, del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59.
Il predetto articolo 64, infatti, al comma 3, che nello schema di decreto legislativo in corso di emanazione non sembra sia stato né modificato, né abrogato, prevede che al fine di assicurare un corretto sviluppo del settore i comuni, limitatamente alle zone del territorio da sottoporre a tutela, adottano provvedimenti di programmazione delle aperture degli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande al pubblico, ferma restando l’esigenza di garantire sia l’interesse della collettività inteso come fruizione di un servizio adeguato sia quello dell’imprenditore al libero esercizio dell’attività. Tale programmazione può prevedere, sulla base di parametri oggettivi e indici di qualità del servizio, divieti o limitazioni all’apertura di nuove strutture limitatamente ai casi in cui ragioni non altrimenti risolvibili di sostenibilità ambientale, sociale e di viabilità rendano impossibile consentire ulteriori flussi di pubblico nella zona senza incidere in modo gravemente negativo sui meccanismi di controllo in particolare per il consumo di alcolici, e senza ledere il diritto dei residenti alla vivibilità del territorio e alla normale mobilità. In ogni caso, resta ferma la finalità di tutela e salvaguardia delle zone di pregio artistico, storico, architettonico e ambientale e sono vietati criteri legati alla verifica di natura economica o fondati sulla prova dell’esistenza di un bisogno economico o sulla prova di una domanda di mercato, quali entità delle vendite di alimenti e bevande e presenza di altri esercizi di somministrazione.
Esemplificando ed estremizzando, dove non è consentita l’apertura di un ristorante con venti tavoli ed una potenziale numerosa clientela che permanga per lungo tempo in modo più o meno rumoroso nella relativa area di riferimento, non può essere consentita una analoga situazione per il solo fatto che l’esercizio in questione abbia scelto di presentare SCIA come esercizio di vicinato di vendita di prodotti alimentari e senza richiedere specifica autorizzazione, che gli sarebbe stata negata, come pubblico esercizio di somministrazione.
Naturalmente tutte le predette considerazioni valgono a norme vigenti e nelle more di eventuali diverse indicazioni a livello di indirizzo politico, anche in relazione ad un eventuale più approfondito esame della richiamata segnalazione dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, nonché degli effetti del richiamato decreto legislativo n. 222 del 2016.
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