Risoluzione n. 343306 del 2 novembre 2016
Si fa riferimento alla nota n. 2922.11/16 GP/sm del 14 settembre 2016, con la quale codesta associazione – evidenziati i vantaggi amministrativi, fiscali e “pubblicitari” che i produttori agricoli possono trarre dalle norme che consentono loro di vendere i loro prodotti senza gli adempimenti e gli obblighi previsti per il commercio al dettaglio di prodotti alimentari e sottolineata, in particolare, la possibilità di vendere nel medesimo ambito ed entro determinati limiti quantitativi, anche prodotti non di propria produzione – pur prendendo atto delle esigenze di sostegno al reddito degli agricoltori per tutelare la produzione alimentare europea ed italiana in particolare e, nel contempo, per favorire la tutela dell’ambiente, la salute degli animali, la sicurezza e la qualità degli alimenti, che giustificano tale particolare disciplina di favore per i produttori agricoli, rappresenta la necessità di un rigoroso rispetto da parte degli stessi dei limiti quantitativi di vendita dei prodotti non provenienti dalle proprie aziende, al fine di evitare situazioni di vantaggio immotivato e di sleale concorrenza nei confronti dei normali esercizi commerciali, nonché l’importanza di una corretta informazione e distinzione in fase di vendita fra i prodotti propri e di terzi, anche a fini di tutela dei consumatori.
Tutto ciò premesso codesta associazione, trasmettendo a supporto delle proprie tesi anche un articolo pubblicato su un blog di une delle associazioni nazionali dei consumatori iscritte nell’elenco tenuto da questo Ministero, chiede a questa Direzione di chiarire se, “al fine di agevolare i controlli da parte degli Organi di vigilanza circa la prevalenza della vendita dei prodotti propri dell’imprenditore agricolo rispetto a quelli acquistati presso terzi, oltre che allo scopo di impedire che il consumatore sia indotto in errore circa la diretta riconducibilità dei prodotti posti in vendita all’attività di produzione diretta da parte dell’imprenditore agricolo, (…) i prodotti che questi acquisti presso terzi non debbano quanto meno essere collocati in aree o su scaffali separati dai prodotti del proprio fondo, ovvero identificati mediante cartelli o altri mezzi atti ad individuarne la diversa provenienza”.
Al riguardo, la scrivente Direzione rappresenta quanto segue.
In via preliminare, richiama l’articolo 4, comma 1, del decreto legislativo n. 228 del 18 maggio 2001, il quale dispone che: “Gli imprenditori agricoli, singoli o associati, iscritti nel registro delle imprese di cui all’art. 8 della legge 29 dicembre 1993, n. 580, possono vendere direttamente al dettaglio, in tutto il territorio della Repubblica, i prodotti provenienti in misura prevalente dalle rispettive aziende, osservate le disposizioni vigenti in materia di igiene e sanità”.
Richiama, altresì, il successivo comma 5, medesimo decreto, che recita: “La presente disciplina si applica anche nel caso di vendita di prodotti derivati, ottenuti a seguito di attività di manipolazione o trasformazione dei prodotti agricoli e zootecnici, finalizzate al completo sfruttamento del ciclo produttivo dell’impresa”.
Richiama, infine, il comma 8, che dispone: “Qualora l’ammontare dei ricavi derivanti dalla vendita dei prodotti non provenienti dalle rispettive aziende nell’anno solare precedente sia superiore a 160.000 euro per gli imprenditori individuali ovvero a 4 milioni di euro per le società, si applicano le disposizioni del citato decreto legislativo n. 114 del 1998”.
Da quanto sopra consegue che effettivamente i produttori agricoli sono legittimati a vendere senza osservare le prescrizioni del citato decreto legislativo n. 114 del 1998, anche prodotti non provenienti dai propri fondi (ivi compresi i prodotti alimentari trasformati presso altre aziende agricole, ma anche quelli che risultano oggetto di un ciclo industriale di trasformazione) purché in misura non prevalente e, comunque, entro i limiti di importo i limiti di importo fissati, per le diverse tipologie di imprese agricole, dalle suddette disposizioni. In altre parole per mantenere il vantaggio dell’inapplicabilità delle disposizioni contenute nel decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, tra le quali anche l’obbligatorietà del possesso dei requisiti professionali per il commercio alimentare al dettaglio di cui all’articolo 71, comma 6, del decreto legislativo n. 59 del 2010, è indispensabile contenere entro certi limiti (sia quelli percentuali, relativi alla prevalenza, che quelli assoluti, relativi ai ricavi) la vendita di prodotti non provenienti dai propri fondi.
Ribadito quanto sopra, con riferimento allo specifico quesito posto relativamente ai prodotti venduti dai produttori agricoli, con particolare riferimento a quelli non provenienti dai propri fondi e pertanto acquistati presso terzi, la scrivente conferma che non esistono norme della disciplina commerciale che impongano ai predetti di adottare modalità di esposizione o di etichettatura che consentano con evidenza all’acquirente di distinguere tra i prodotti provenienti o meno dal proprio fondo, fermo restando che per gli organi di controllo esistono certamente altre modalità ed altri strumenti idonei ad accertare l’effettiva provenienza dei prodotti ed a verificare il rispetto dei limiti di vendita di quelli non provenienti dal proprio fondo.
Questa Direzione conviene inoltre con codesta associazione che tali obblighi non possano desumersi neppure dal Regolamento (CE) n. 1308/2013, recante organizzazione comune dei mercati dei prodotti agricoli, considerato che l’articolo 76 di tale regolamento prevede solo obblighi relativi alla qualità dei prodotti posti in vendita ed all’indicazione del Paese di origine.
Né si ritiene, tuttavia, che tali obblighi possano desumersi dall’articolo 21, del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, il quale esplicita i termini e le modalità che contraddistinguono una pratica commerciale ingannevole.
E’ vero infatti che tale disposizione considera pratica commerciale scorretta non solo quando vengono fornite informazioni non rispondenti al vero, ma anche quando, seppur le informazioni siano di fatto corrette, la pratica commerciale, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva o per altre omissioni, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio riguardo ad uno o più degli elementi caratterizzanti l’acquisto (fra cui sono espressamente indicati l’origine geografica e commerciale) e, in ogni caso, lo induce o è idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso.
Ma tale prescrizione non impone un livello di informazioni minime o altri adempimenti positivi che possano tradursi nell’ipotizzato obbligo di utilizzo di scaffalature e attrezzature separate per i prodotti agricoli non provenienti dal proprio fondo, bensì si concretizza in un divieto di informazioni false o comunque ingannevoli anche per il contesto, che potrebbe al più consentire di contrastare (segnalandoli per le valutazioni ed i provvedimenti di competenza all’Autorità garante della concorrenza e del mercato) pratiche commerciali che ad esempio, per le iscrizioni pubblicitarie che enfatizzino il carattere di vendita di prodotti del proprio fondo, eventualmente riportate all’ingresso del punto vendita o sui singoli scaffali, in un contesto in cui all’interno del locale e nei singoli scaffali non siano riportate diverse e più specifiche indicazioni, siano idonee a indurre nel consumatore la convinzione di acquistare prodotti del fondo dell’agricoltore che effettua la vendita anche quando invece gli siano offerti indistintamente in vendita anche prodotti di terzi.
Pur condividendo pertanto l’opportunità che ai consumatori sia fornita un’informazione chiara e trasparente anche in merito alla effettiva provenienza dei prodotti in questione, e pur ritenendo che tale esigenza risponda non solo all’interesse alla tutela dei consumatori, ma anche ad un’esigenza di tutela della reputazione e di mantenimento della fiducia nell’interesse degli stessi produttori agricoli, si ritiene che tali esigenze non possano essere perseguite con interpretazioni delle norme vigenti che ne desumano obblighi che in molti casi potrebbero risultare eccessivamente rigidi e sproporzionati rispetto alle stesse esigenze da salvaguardare, bensì incoraggiando e sensibilizzando gli stessi produttori agricoli, sia da parte delle loro associazioni di categoria che da parte dei consumatori e delle loro associazioni, all’adozione, in nome della trasparenza e alla luce della necessità del rispetto del rapporto fiduciario che va mantenuto tra acquirente e venditore, della buona prassi di garantire all’acquirente informazione adeguata alla consapevolezza di quali dei prodotti venduti siano effettivamente provenienti dal proprio fondo.
Le stesse associazioni dei consumatori potranno inoltre valutare l’eventuale opportunità, nel quadro delle loro iniziative di informazione e formazione dei consumatori per un consumo consapevole, di campagne informative a favore dei consumatori che, nel rappresentare i possibili vantaggi economici, culturali o ambientali relativi all’acquisto diretto di prodotti agricoli dagli stessi produttori, mentre evitano ingiustificate semplificazioni che ne facciano ritenere di per sé una generalizzata maggiore genuinità o sicurezza rispetto ai prodotti commercializzati attraverso diversi canali di vendita, evidenzino anche l’opportunità per il consumatore di informarsi di volta in volta circa l’effettiva provenienza del prodotto acquistato presso i produttori agricoli, considerata la legittima possibilità per gli stessi di vendere anche prodotti non propri ed identici a quelli anche industriali presenti negli altri canali di vendita.
* Fonte Mise – Ministero dello Sviluppo Economico
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